La generazione dei figli di Dio
Generazione carnale e generazione spirituale
diventare figli di Dio
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto.
A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne,
né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. (Gv 1, 9-13)
Questi celebri versetti del mirabile prologo del Vangelo secondo Giovanni dovrebbero essere letti alla luce di tutto il testo giovanneo; e in particolare alla luce dei capitoli 2 e 19.
Si legge nel prologo, immediatamente dopo i versetti sopra riportati:
«E noi vedemmo la sua gloria; gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» Gv, 1, 14).
E nel capitolo 2, dopo i miracolo delle nozze di Cana, è scritto:
«Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea; manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (Gv 2, 11).
E’ noto che, nel Vangelo di Giovanni, la piena manifestazione della gloria di Cristo, avviene sulla croce. Viene perciò spontaneo collegare il capitolo 2 con il capitolo 19, in cui si consuma il dramma della passione.
Ma tra il capitolo 2 e il capitolo 19 vi è un altro legame. La presenza della madre di Gesù, alla quale, in ambedue gli episodi, il figlio si rivolge chiamandola «donna».
I collegamenti che abbiamo così evidenziato ci suggeriscono di andare più a fondo nella comprensione del testo sacro.
Per prima cosa, dunque, osserviamo come nel prologo si sottolinei la differenza tra la generazione carnale e la generazione spirituale. Quelli che, accogliendo Cristo, hanno avuto il potere di diventare figli di Dio, non sono divenuti tali perché generati «da sangue, da volere di carne, da volere di uomo»; ma perché, avendo creduto nel suo nome, «da Dio sono stati generati».
Qui sembra che il Vangelo non dia alcun valore alla generazione carnale. Anzi, che getti su di essa una sorta di ombra peccaminosa. Ciò non è detto esplicitamente; ma il fatto di sottolinearne la sterilità spirituale e il riecheggiamento di altri testi scritturali, come Sl 50, 7, rendono l’allusione più che probabile.
Ad ogni modo, si ha l’impressione che la generazione carnale, in quanto tale, venga in qualche modo squalificata.
Se, però, è vero che il capitolo 2 dello stesso Vangelo – quello in cui Cristo incomincia la sua vita pubblica; dà inizio ai suoi miracoli; e manifesta la sua gloria – riecheggia le parole del prologo: «e noi vedemmo la sua gloria», potrebbe non essere senza una significativa allusione il fatto che l’episodio a cui si fa riferimento nel medesimo capitolo 2 sia un matrimonio.
Nel prologo si è gettata un’ombra sulla generazione carnale; e all’inizio della vita pubblica di Gesù questi, insieme a sua madre e ai suoi discepoli, partecipa a una festa nuziale. Non potrebbe esserci un misterioso legame tra i due testi, così vicini e nello stesso tempo imparentati per la presenza di concetti simili?
Molti esegeti hanno sottolineato il fatto che il banchetto nuziale, posto all’inizio del Vangelo, richiama sia il banchetto messianico, sia il legame nuziale tra Dio e il suo popolo, rinnovato dalla manifestazione di Cristo quale iniziatore, insieme a Maria, di un nuovo genere umano.
Ma tutto ciò non ha rilevanza per le nozze terrene?
«Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: “Non hanno più vino”» (Gv 2, 3).
Che nel semplice inconveniente della mancanza di vino Gesù veda il simbolo di una realtà spirituale molto più profonda, lo dimostra sia il parallelo con l’episodio della Samaritana e dell’acqua del pozzo di Giacobbe (Gv 4, 1-42); sia il senso misterioso del dialogo e degli avvenimenti che seguono. Ciò è comunemente ammesso; ma non sembra che si rifletta al fatto che, trattandosi di un episodio che ruota intorno ad una festa nuziale, il senso profondo del simbolo dovrebbe riguardare in primo luogo proprio l’umana generazione.
Se è così, l’espressione «non hanno più vino» dovrebbe essere intesa, nel suo senso simbolico, non semplicemente come generica allusione alla condizione umana priva della grazia divina; ma in particolare come relativa all’ombra che grava sul «sangue, il volere di carne, il volere di uomo».
La condizione di peccato, per la quale la generazione umana non è in grado di trasmettere la vita divina, non può essere sanata dalle «giare di pietra per la purificazione dei giudei»; cioè dalla legge antica, per quanto essa potesse essere santa. Le giare di pietra, infatti, contenevano soltanto acqua. Ed era necessario che quest’ultima, per purificare realmente l’amore nuziale, fosse mutata nel vino del banchetto messianico.
Cosicché le parole del maestro di tavola: «Tutti servono da principio il vino buono. E quando sono un pò brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono» (Gv 2, 10), avrebbero un senso immenso: «il vino buono, che consacra e purifica le nozze umane, è giunto solo ora, per mezzo di Cristo, nella storia del mondo».
Non però soltanto per mezzo di Cristo!
«Ti emòi kai sòi»: «Che [c’è] tra me e te?» (Gv 2, 4), chiede Gesù a sua madre. Come in diversi luoghi dell’Antico Testamento (cf Gd 11, 13; 2Cr 35, 21), queste parole sembra che, contrariamente all’opinione più diffusa, non indichino estraneità. Bensì piena comunione tra Cristo e Maria. «Che separazione c’è tra me e te?», direbbe Gesù: «Non è ancora giunta la mia», cioè, dunque, la nostra «ora».
Come, parlando alla samaritana, Gesù avrebbe elevato il discorso dall’acqua terrena all’acqua della grazia, così ora, parlando a sua madre, egli passa spontaneamente dal vino mancante alla festa di nozze al vino messianico, che avrebbe riconsacrato l’amore nuziale e la sua fecondità, ora inquinate dalla prevaricazione «del sangue, del volere di carne, del volere di uomo»; conseguenza della prima colpa, la quale ha macchiato tutte le generazioni degli uomini «fino ad ora».
Gli esegeti ammettono che Gesù, in questo luogo, chiami Maria «donna» in quanto «nuova Eva». Che, insieme al figlio, dovrà dare vita al nuovo genere umano. Sembra però che non vedano il legame che questa simbologia ha, necessariamente, con la rigenerazione dell’amore nuziale e della sua fecondità.
Su questa preclusione grava l’ombra delle parole del prologo sul «sangue, il volere di carne, il volere di uomo», che non possono generare i figli di Dio. Ma questa incapacità era legata alla mancanza del vino messianico, la quale rattristava le nozze umane. Ora la partecipazione di Gesù e di sua madre alla festa nuziale, il miracolo che anticipa l’«ora» di ambedue e la manifestazione della gloria dell’Unigenito nella carne cambiano la situazione. L’acqua delle giare di pietra dei giudei non poteva realmente purificarli. Ma, al contrario, il sangue messianico di Cristo, dato come bevanda ai suoi discepoli, li purifica da ogni veleno ereditato dall’antico peccato.
A differenza della samaritana, Maria capisce il senso spirituale delle parole di Gesù. E, pur intuendo che l’opera purificatrice a loro affidata avrà piena realizzazione soltanto nella loro «ora», capisce che suo figlio ne darà, fin da adesso, un «segno» anticipatore. E’ come se egli avesse detto: «Ben altro faremo, all’ora stabilita per noi, a beneficio delle nozze umane!».
Per questo le parole della madre: «Fate quello che vi dirà» (Gv 2, 5), non si limitano all’episodio dei servi che attingono l’acqua dalle giare. Ma risuonano attraverso i secoli a indicare la via di salvezza aperta a tutti i discepoli di Cristo.
E quando, sul Calvario, Gesù dirà alla «donna», indicandole «il discepolo che egli amava». «Ecco il tuo figlio», e al discepolo: «Ecco la tua madre» (Gv 19, 26-27). Certamente non parlava soltanto di un rapporto di generazione spirituale che non avesse alcun legame con la generazione umana. Dovremmo invece pensare che, come Maria è stata presente alle nozze di Cana come «nuova Eva», chiamata a rigenerare le nozze terrene, così ora il discepolo, prendendola «nella sua casa» (Gv 19, 27), introdurrà Maria in ogni casa, in ogni dimora dell’amore umano, per santificare quest’ultimo. E renderlo sacramento di trasmissione della vita divina, in una quasi necessaria cooperazione alla fede e all’acqua battesimale.
Vediamo, purtroppo, sotto i nostri occhi, che cosa diventi l’amore tra l’uomo e la donna quando l’antica prevaricazione del «sangue, del volere di carne, del volere di uomo» lo sequestra, rendendolo estraneo all’opera divina della generazione di nuovi figli di Dio, a cui invece dovrebbe cooperare, essendo stato sublimato dall’amore di Cristo e di Maria.
Tanto più sentiamo l’urgenza di far risuonare l’invocazione:
«A te ricorriamo, esuli figli di Eva; a te sospiriamo, gementi e piangenti, in questa valle di lacrime (…) O clemente, o pia, o dolce Vergine Maria!».
don Massimo Lapponi